Ci voleva un evento di portata internazionale. Un atto che pare sia costato alla casa di moda Dolce & Gabbana ben 36 milioni di euro. Avrebbe potuto essere l’occasione per cambiare alcune dinamiche, per generare un po’ di consapevolezza. Invece, anche stavolta, perderemo l’occasione.
Eh sì, perché oggi siamo tutti qui ad analizzare, a sindacare, a giudicare. Ma quando avremo finito le parole, i meme e le vignette sarcastiche, torneremo al nostro vecchio modo di comunicare. E quello che avrebbe potuto trasformarsi in un pretesto per scuotere coscienze diventerà uno dei tanti casi studio degli “errori altrui”.
Siamo tutti un po’ Dolce & Gabbana
Il problema, diciamoci la verità, non è l’arroganza di Dolce & Gabbana. Magari fosse solo quello.
La realtà è che Internet ci sta rendendo degli sconsiderati.
Il web, nel corso degli anni, ha sempre più dematerializzato la comunicazione, sgravandoci di dosso ogni senso di responsabilità nei confronti delle nostre parole. Esprimiamo il nostro pensiero con più facilità davanti a uno schermo anziché di fronte a una persona. Non esiste nemmeno più la fatica di digitare un numero, di premere una penna sul foglio, di cambiare l’inchiostro secco della macchina da scrivere. Giusto la pressione di qualche tasto e via, ecco che abbiamo detto la nostra.
Questa leggerezza così “democratica”, semplice e veloce ci piace un sacco. Ci fa stare bene, gratifica il nostro ego e ci risparmia il disagio e la fatica di dover gestire stati emotivi e imbarazzi. Non solo i nostri, ma anche quelli altrui. Lo schermo ci protegge, filtra e ci tiene lontani dalla realtà. Hater, cyber bullismo, fake news: c’è davvero da stupirsi?

Di Renan Katayama – Dolce & Gabbana, CC BY-SA 2.0
Quando premiamo invio e lasciamo che le nostre parole diventino impulsi digitali non sentiamo lo stesso peso o l’impegno richiesto per pensare, aprire bocca, impostare il tono della nostra conversazione. Dovremmo farlo, certo, ma è qualcosa che sembra diventato facoltativo. Non siamo obbligati a essere coscienti delle nostre smorfie facciali, del volume della voce, dell’intensità dello sguardo e di tutti i messaggi che trasmettiamo con il nostro corpo. Né siamo chiamati a guardare in faccia il nostro interlocutore, ad ascoltarlo oppure anche solo ad osservare i segnali che ci invia.
È un po’ come quei pensieri che ci girano in testa quando non abbiamo sonno, e lasciamo che la mente vaghi senza controllo. Comunicare si trasforma sempre più in un parlare a noi stessi. Un dialogo in cui raccontiamo solo le cose che ci va di sentire, dove il pubblico ha la sola funzione di testimoniare la pubblicazione del nostro pensiero e, se possibile, approvare e applaudire.
E così, a furia di parlare a noi stessi, diventiamo sordi.
Non si tratta (solo) di arroganza, ma di sordità. Una malattia che ha contagiato non solo Dolce & Gabbana, ma buona parte delle persone che popolano il web.
Il peso del silenzio
Non comunicare oggi significa smettere di esistere. Questa condizione ha un impatto talmente forte sulle nostre vite da farci sentire spesso il bisogno di dover aprire bocca a tutti i costi. A volte invece basterebbe imparare a tacere, a dare valore al silenzio, a dire due parole in meno anziché una in più.
Perché il problema di fondo in questo modo di fare comunicazione, è che parliamo dimenticandoci di un elemento fondamentale: chi ci ascolta. Non esiste comunicazione senza un interlocutore. Bisogna studiarlo, conoscerlo, comprenderlo. In una parola sola: ascoltarlo. È qui il fallimento più grande di Dolce & Gabbana.
Per ascoltare gli altri però, occorre fare silenzio. Tacere, mettere in pausa il proprio ego e le proprie credenze, lasciare spazio alle necessità, alle opinioni e all’identità di chi abbiamo davanti. C’è poco da fare: se vogliamo essere ascoltati da qualcuno in particolare, bisognerà pur arrivare a conoscerlo, questo qualcuno.
È un processo che richiede tempo, fatica, attenzione e voglia.
E allora meglio rimanere sordi. Che degli altri, siano essi cinesi o meno, non è che ce ne freghi granché.